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Due tribunali, due sentenze diverse. L’autonomia dei giudici esiste già

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Ma i figli di due mamme, sono figli di due mamme? Sì, no, ancora sì. Insomma dipende. Dalla circostanza, dal ricorso, dal tribunale e dal giudice. Dall’interpretazione creativa, da un’«autonomia di fatto» delle toghe, ma più di tutto – meglio, prima di tutto – dall’assenza di una norma. Se la legge è un vuoto, come in fisica, verrà riempito.

Così accade che ieri i giudici di Brescia abbiano respinto il reclamo con cui il ministero dell’Interno intendeva cancellare la madre intenzionale dall’atto di nascita ammesso lo scorso anno dallo stesso tribunale. Quarantotto ore prima (ore, non anni), la Corte d’appello di Milano aveva dichiarato illegittime le trascrizioni degli atti di nascita del Comune dei figli di tre coppie di donne che erano ricorse alla fecondazione assistita all’estero, ribaltando la decisione di primo grado, quando sempre i giudici milanesi avevano considerato validi i riconoscimenti all’anagrafe dei figli nati con procreazione assistita. Il tutto sostenendo che «può» o «non può» essere il giudice a definirne la legittimità, in una dimensione bipolare del diritto degna di Schrödinger e del suo gatto.

Disclaimer: la biologia non è il tema. Non si discute se sia giusto o meno che due donne o due uomini possano avere un figlio ricorrendo alla fecondazione assistita all’estero. Né si dovrebbe discutere che un bambino nato – nato, comunque sia stato concepito – sia «figlio». Il punto è l’assenza della norma, l’imprevedibilità della giustizia che ne discende, e l’incertezza del diritto che ci affligge. E in effetti, tre sentenze distoniche hanno un denominatore comune: il richiamo al legislatore. La corte di Milano invoca una norma per garantire «il bilanciamento di diritti di rango costituzionale che non devono venire a trovarsi in conflitto tra loro, inclusi quelli del nascituro, soggetto capace di diritti, nel suo essere e nel suo divenire». E in modo uguale e contrario si pronuncia il tribunale di Brescia: «La protratta inerzia del legislatore, pur dopo il severo monito nell’ormai lontano 2021 della Corte Costituzionale» legittima una «interpretazione evolutiva guidata dalla applicazione di principi costituzionali e sovranazionali» per «superare la mancata tutela dei figli». Interpretazione che tuttavia non può sostituirsi al compito del legislatore, «giacché il diritto vivente è appunto anche intervenire colmando lacune a fronte della inerzia protratta del legislatore». Tradotto: finché non ci sarà la norma, ci saranno sentenze. E come si è visto, sono sentenze e il loro opposto.

Vale per i figli delle coppie omosessuali e vale per il fine vita. In questo caso, una voragine normativa che nel corso dei decenni ha inghiottito le storie – tra le molte – di Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, Eluana Englaro, dj Fabo. Un dibattito che ha rimbalzato ottusamente fra tribunali, Corte costituzionale, aula parlamentare. E lì si è sempre fermato. Politica debole, giustizia forte. Ma se la giustizia è anche confusa, sarà sempre una condanna.