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Raffaele Cutolo in ospedale, l’unica richiesta dell’ex boss: “Fatemi abbracciare mia figlia” avuta con la fecondazione assistita

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Raffaele Cutolo, il fondatore della Nuova camorra organizzata, uno dei boss più temuti della storia del crimine, l’ispiratore di trame vere e immaginarie, nonché di film, canzoni e romanzi, è stato trasferito d’urgenza all’ospedale di Parma per un peggioramento delle sue condizioni di salute. In carcere dal 1979, è dal 1995 in regime di carcere duro al 41 bis. “Non è grave, ma ha bisogno di cure migliori” ha detto il suo avvocato, Gaetano Aufiero che di recente ha presentato istanza al Tribunale di Sorveglianza affinché Il suo assistito, che ha 78 anni, possa abbracciare la figlia di 13 anni, concepita attraverso l’inseminazione artificiale con autorizzazione ottenuta dal ministero di Giustizia nel 2001.

Tragedia e parodia, vero e falso, possibile e verosimile: tutto è vissuto in lui, e tutto ha contribuito a farne un mito, sebbene negativo. Un giorno, nel 1988, si sparse la voce che stava lì lì per pentirsi. Da Napoli accorse il pm Greco per interrogarlo. Macché. “Le mie donne mi hanno chiesto di non pentirmi”, si sentì dire. La sua “carriera” criminale Cutolo la comincia il 24 settembre del 1963, quando uccide Mario Viscido che aveva offeso la sorella. Rimane in fuga due giorni, poi si costituisce e resta in carcere fino al 1970, ma torna libero per decorrenza dei termini. Quando la Corte di Appello di Napoli riduce la pena dell’ergastolo a 24 anni, Cutolo deve tornare in carcere, ma diventa uccel di bosco. Nel 1971 viene però nuovamente arrestato per un errore grossolano: imbocca una strada a senso unico e si trova parata davanti un’auto dei carabinieri.

Nonostante abbia frequentato solo la quinta elementare e non abbia dimostrato particolare attitudine allo studio (dai 14 anni fino all’omicidio ha svolto lavori di varia natura) in carcere diventa “o’ prufessore” (il professore), perché sa leggere e scrivere. Il prestigio tra i reclusi gli deriva da un episodio controverso: avrebbe sfidato, secondo i suoi fedelissimi, Antonio Spavone, un boss della camorra, che però ha smentito l’episodio. In realtà, Cutolo si era affiliato alla ‘ndrangheta e grazie a questa affiliazione riesce ad ottenere vari privilegi. Poi, seguendo proprio i riti di affiliazione della mafia calabrese, crea la Nco, cioè dà un vertice a una realtà criminale storicamente acefala, e fa aderire alla sua nuova creatura centinaia di detenuti (alla fine degli anni ’70 le forze di polizia li stimeranno in 3.000). Il sistema è dei più elementari. L’organizzazione distribuisce i proventi delle estorsioni fra gli affiliati e pensa, economicamente, alle famiglie nel caso finiscano in carcere. La struttura è piramidale, al vertice c’è Raffaele Cutolo (il Vangelo) sotto i Santisti, poi i capizona e infine i semplici affiliati.

Il capo resta a Poggioreale fino al 1977, quando gli viene riconosciuta l’infermità mentale. È ricoverato prima all’ospedale psichiatrico di Sant’Eframo nuovo, a Napoli, poi in quello di Aversa, dal quale evade il 5 febbraio del 1978, nelle prime ore del pomeriggio, grazie a un piano organizzato da Giuseppe Puca (uno dei santisti) che fa saltare il muro di cinta, mentre il boss era nel giardino. Durante la latitanza ad Albanella, un centro in provincia di Salerno, sostiene di aver offerto ai servizi segreti il suo interessamento per rintracciare Aldo Moro, e che il suo aiuto viene rifiutato. Lo ribadisce anche qualche anno dopo davanti alla commissione di inchiesta del Parlamento. Durante la latitanza va a spasso per l’Italia con i documenti di un ingegnere incensurato. “A Milano fummo bloccati dalla polizia, dopo il controllo delle generalità il capo pattuglia mi prese da parte e – ha raccontato più volte – mi disse: attenzione ingegnere, che il suo autista è un pregiudicato”. Un altro errore lo commette il 10 maggio del 1979, quando telefona a un giornale per intimare la liberazione di un ragazzo rapito a San Giuseppe Vesuviano.

Appena pubblicata la notizia della telefonata, attraverso i tabulati del gestore telefonico, si riesce a risalire all’utenza da dove ha chiamato. Il 19 maggio il boss della Nco viene arrestato. Da quel momento non lascerà più il carcere. Resta per qualche mese a Poggioreale e da qui trasferito nel “supercarcere” di Marino del Tronto dove, però, ha a disposizione una specie di suite, un paio di segretari e dove riceve quotidianamente visite e addirittura gli viene portato il pane fresco dai picciotti da Ottaviano. Oramai ha grosse disponibilità di denaro e compra il casino di caccia mediceo di Ottaviano per 270 milioni. Durante un processo nel quale è imputato assieme ad alcuni camorristi e al figlio che ha appena riconosciuto, riceve l’omaggio di un calciatore dell’Avellino, Juary e del suo presidente, Sibilia. Scoppia la guerra nella camorra. Cutolo pretende dai contrabbandieri diecimila lire per ogni cassa di sigarette di contrabbando scaricata sulla costa campana. Il rifiuto è netto, allora i cutoliani tentano di uccidere il nipote del boss Michele Zaza, che viene solo ferito. Correva l’anno 1979 e la reazione è violenta.

Viene costituita una associazione fra gli anti-cutoliani, La nuova famiglia, e i morti ammazzati si contano a centinaia. In quattro anni saranno un migliaio le vittime di questa “guerra”. Cutolo, comunque, è al massimo del potere camorrista . Così nell’81, quando viene rapito dalle Br Ciro Cirillo, l’assessore regionale della Dc, si mettono in moto politica, servizi segreti e camorristi: tutti per ottenere la liberazione dell’ostaggio, che avverrà dietro il pagamento di un riscatto di 1450 milioni. Si interessa anche di Roberto Calvi e la sua cella viene perquisita durante il sequestro del generale Usa Dozier. Comincia, proprio da questi contatti con la politica, la parabola discendente. Vengono pubblicati articoli che descrivono la sua cella e i privilegi di cui gode a Marino del Tronto e il presidente Pertini lo fa trasferire a l’Asinara. Sposa Immacolata Iacone, conosciuta nel carcere marchigiano.

Nel 1983, però, due fedelissimi, Barra e Pandico, diventano pentiti. Finiscono dietro le sbarre circa 850 persone (tra cui Enzo Tortora), nonostante i tanti difetti (e assoluzioni) il blitz segna la fine della sua organizzazione. Ottiene il permesso per fare la fecondazione artificiale nel 2001 e la moglie dà alla luce una bambina, Denise. Nel corso degli anni gli vengono dedicati numerosi libri. Uno, “Il camorrista”, di Giuseppe Marrazzo (dal quale è tratto il film di Tornatore) lo fa inferocire perché contiene la perizia in cui si parla di suo padre alcolizzato. Il viale del tramonto è costellato di testimonianze, di cose dette e non dette nei processi. Poi arriva la canzone, don Raffaè, di Fabrizio De André. “Ah, che bello ‘o café, come in carcere lo sanno fa…”. Il carcere? “Non lo lascerò mai – disse anni fa in un processo – perché così muore un camorrista”.
Articolo del Riformista.it