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Fecondazione assistita, viaggio in Danimarca: un bimbo su 8 concepito in clinica e 750 mamme single l’anno: «Le donne sappiano che è possibile»

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Vengono chiamate «solomor» e non ci sono pregiudizi: la loro figura è raccontata anche nei libri per l’infanzia Grazie ai sussidi dello Stato, che copre le spese dei primi sei tentativi di fecondazione assistita sotto i 40 anni, sempre più donne decidono di fare un bambino da sole

«Vengono da tutta Europa, dall’Italia, dalla Francia, e sembrano non avere idea che la fertilità è un orologio: ha un ritmo, e poi si ferma. Una su tre delle pazienti che vengono qui a concepire non ha un compagno: diventa madre da sola».

Il sole inonda la Aagard Klinik, sulla parete i nomi dei nati del 2024
formano, su una foglia ciascuno, un «albero della vita». L’ambiente è cioè
idilliaco; le parole di Aboubakar Cissé, direttore della clinica, sono invece
ruvide. «Le donne andrebbero educate meglio».

Non si può rispondergli che le donne in Europa sono in genere ben coscienti dell’orologio e del suo ticchettare, che a mancare sono i nidi, i lavori, i compagni di vita: siamo in Danimarca, dove il welfare è leggendario, l’equilibrio vita-lavoro una religione il cui rito base è rispondere alle 8.01 a una mail inviata alle 17.01 del pomeriggio prima, e il 90% dei cittadini in età fertile vuole «almeno un figlio». Eppure la natalità arranca lo stesso.

La questione è così centrale che nel discorso di Capodanno 2024 la premier Mette Frederiksen ha annunciato che gli sforzi per curare l’infertilità raddoppieranno, con sei tentativi di concepimento assistito a carico dello Stato e anche per il secondo figlio.

Un bambino su otto, in Danimarca, nasce già con l’ausilio della fecondazione in vitro; di questi uno su dieci è figlio di una mamma single. Fatti i conti, sui 5 milioni di danesi sono circa 750 madri l’anno: concepire da sole, con il seme di un donatore, è permesso dal 2007, ed è una scelta così accettata che c’è anche una parola per definirla: solomor.

Significa «madre in solitaria», ma di solitario nell’esperienza di queste donne c’è poco. Il sito che le raggruppa, solomor.dk , ha 2.300 iscritte che si danno appuntamenti, consigli, amicizia. Agli aiuti concreti pensa lo Stato, che già ha pagato la procreazione e offre un anno di maternità, sconti sui nidi, mesi di consulenze ostetriche.

«È importante che le donne sentano che diventare madri da sole è
possibile
», spiega Lone Schmidt, direttrice del dipartimento di Medicina sociale all’Istituto di Salute Pubblica. Tra gli studi più recenti, una mappatura «precisissima» delle solomor . «Sono identiche a tutte le altre per indicatori socioeconomici, salute, propensione alla relazione. Diversa è solo l’età: hanno in media tre anni di più, al parto, delle donne in coppia». Hanno aspettato più a lungo. Cosa? La domanda è retorica. «La comparsa di un uomo con cui fare famiglia. A un’età media di 37 anni si sono attrezzate da sé». Anche gli uomini, secondo le statistiche, vogliono figli. «Ma per loro è più importante avere una posizione solida. Così aspettano».

«Nessuno dice: abbiamo pochi bambini, quindi potete farli anche voi zitelle, ma è così», ride Vibeke Havtorn, 35 anni. In braccio ha Nils, tre mesi, concepito «al secondo tentativo, senza difficoltà». Chiacchieriamo tra gli scaffali per ragazzi della biblioteca di Lystrup, sobborgo di Aarhus dove ogni villetta ha il suo cortile e ogni cortile ha la sua altalena, la sua casetta sull’albero, i suoi tricicli. Educatrice all’asilo, «mi occupo dei bimbi fino a tre anni. Ho sempre pensato che avrei avuto un figlio». Viveva in città, e l’inflazione ha ristretto il suo salario.

«I miei genitori qui a Lystrup avevano gli stessi problemi. Sono tornata a
vivere con loro». Gli Havtorn dividono ora una villetta: «la cucina in comune, le stanze e i bagni divisi. Abbiamo due ingressi separati. Quando mi sono sistemata così, ho aspettato il primo giorno di mestruazioni e poi ho chiamato la clinica». Un compagno non c’è da tempo nella vita di Vibeke, «e non l’avrò più. Sto bene, scelgo tutto io, sono la capofamiglia. Sono stata fidanzata, ma ora non penso di perdere qualcosa».

In biblioteca sono molti i libri illustrati per bambini dove la figura genitoriale è una sola. L’uccellino nato solo da un uovo, la lontra sola col suo lontrino. Per le madri l’antesignana è una delle prime solomor, Signe Fjord, che in sette manuali racconta il suo percorso di madre single con figlia oggi adolescente. Regole base: freezer pieno, una rete di amici, perdonarsi gli errori. E sincerità: «Con mia figlia», scrive Fjord, «ho parlato subito della mia scelta. Il primo libro l’ho scritto per lei. Ogni bambino deve sapere la storia della sua identità, e può tollerarla».

Anche in materia di «sincerità» la legge danese è avanzata. Un donatore di seme può scegliere di essere reperibile e solo al figlio, solo quando è maggiorenne, la clinica o la banca del seme possono comunicarne l’ultimo indirizzo noto. Vibeke ne ha scelto uno che offrisse questa possibilità. «Se Nils vorrà farlo non mi opporrò, è la sua storia. Del resto l’obbligo che quest’uomo ha è solo un incontro».

«Ci vorrebbe un registro europeo dei donatori», invoca Jakob Axel Nielsen, amministratore delegato di Cryos International, la più grande banca del seme al mondo. «Spediamo gameti in 124 Paesi, e ogni anno contiamo sulle donazioni di 1.200 uomini. In 35 anni abbiamo contribuito a centomila nascite».

Dai computer è facile sfogliare l’intero catalogo. Vibeke aveva descritto questo momento come «imbarazzante: sembrava di stare su Tinder». I donatori sono classificati secondo decine di parametri, dal colore degli occhi all’altezza: le madri sono incoraggiate a scegliere un donatore d’aspetto simile al proprio, in modo che il nascituro non si veda diverso dalla sola famiglia che conoscerà. «Ho poi scelto un donatore che somigliava a mio fratello. È da lui, del resto, che vado quando mi servono consigli». Nils, per ora, è identico a lei.

ARTICOLO DI di Irene Soave, inviata a Aarhus

FONTE CORRIERE.IT