
Tra scienza e diritto: chi ha paura della procreazione assistita?
7 Maggio 2025
Nato con l’Ai, primo caso al mondo: ma è già polemica
15 Maggio 2025I ritardi si concentrano nel Centro Sud, tra Puglia, Calabria, Molise, Sardegna. Ma non mancano forti ritardi nel Nord, dove spicca il caso della Liguria
A cinque mesi di distanza dall’entrata in vigore dei nuovi Lea (livelli essenziali di assistenza) sulla Pma (procreazione medicalmente assistita) cinque Regioni non riescono ancora a garantire la piena applicazione della normativa. Si concentrano nel Centro Sud, tra Puglia, Calabria, Molise, Sardegna. Ma non mancano forti ritardi nel Nord, dove spicca il caso della Liguria, che con due soli centri pubblici garantisce unicamente il primo livello (cioè l’inseminazione intrauterina) e quindi non la fecondazione in vitro (secondo livello) e tantomeno il recupero testicolare degli spermatozoi con procedure chirurgiche avanzate (terzo livello). Altre Regioni, come le Marche, arrancano. Questo nonostante siano decine di migliaia le coppie che si rivolgono al servizio sanitario nazionale. Tre anni fa (ultimo dato disponibile) quasi 80 mila (78.105) hanno fatto ricorso alla procreazione medicalmente. Percorso terapeutico che ha portato alla nascita di 15.583 bambini. Vale a dire, con una percentuale di successo che sfiora il 20%. E la domanda è in costante crescita, come conferma la Siru, società di riproduzione umana.
Molte coppie continuano ad andare all’estero
“Tuttora è massiccia la mobilità procreativa, con coppie che si spostano da una regione all’altra, così come è ancora forte l’esodo verso l’estero per praticare l’eterologa: i centri pubblici che la garantiscono in Italia sono ancora pochi”, dice Paola Piomboni, presidente della Siru, nonché docente di Biologia applicata all’Università di Siena e direttrice del laboratorio Pma dell’azienda ospedaliero-universitaria della città toscana. Il fattore tempo e una vasta rete di centri sanitari specializzati sono però dirimenti, come ha dimostrato la stessa società scientifica in occasione del proprio congresso nazionale a Verona. Generalmente le coppie con problemi di fertilità impiegano 4 o 5 anni prima di iniziare un percorso adeguato, che può richiedere anche la Pma. “Il ritardo dell’avvio della fecondazione in vitro provoca una riduzione delle possibilità di successo, un effetto che si acuisce in modo particolare con l’età materna avanzata e in presenza di una causa nota di infertilità”, spiega Piomboni. In pratica nelle donne di età pari a 36-37, 38-39 e 40-42 anni anche solo un ritardo di 6 mesi riduce le nascite rispettivamente del 5,6%, del 9,5% e dell’11,8%. Se poi il ritardo è di 12 mesi nelle donne over 40 le possibilità di successo diminuiscono di ben il 22,4%.
Liste d’attesa: si aspettano anche due anni
Un problema acuito dalle interminabili liste d’attesa per accedere alla terapia: da un minimo di 6 mesi a oltre un anno (si può arrivare anche a due). Con l’aggravante che molte Regioni, soprattutto quelle sottoposte a piani di rientro e che presentano le maggiori criticità sul fronte dell’efficienza del servizio sanitario, non sono nemmeno in grado di assicurare la fecondazione eterologa. “In Italia non ci sono donatrici di ovociti e tutte le aziende sanitarie sono costrette a rivolgersi alle banche certificate estere, diversificando continuamente le fonti di approvvigionamento – prosegue Piomboni -. Solo che anche un minimo stock di 6 ovociti costa 2.500 euro e non tutte le Regioni hanno la disponibilità finanziaria necessaria”. C’è poi la questione della disomogeneità a livello nazionale delle procedure di accesso alle terapie, anche a causa di una discrezionalità delle Regioni nell’applicazione concreta della normativa. “Le disposizioni dovrebbero essere uguali in tutto il Paese, ma molte non sono in grado di applicarle – dice Piomboni -. Inoltre cambiano anche i ticket per ogni step del percorso. Le Regioni dovrebbero organizzarsi meglio e quando non riescono a provvedere con i propri centri pubblici dovrebbero comunque garantire le prestazioni attraverso l’offerta di strutture private convenzionate”. Offerta che spesso non c’è.
Da Nord a Sud: i ritardi delle Regioni
Così a fronte di Regioni che brillano, con una vasta rete di centri pubblici e privati convenzionati (dalla Lombardia al Veneto, dall’Emilia-Romagna alla Toscana) ce ne sono altre ancora indietro. Al Nord, come abbiamo visto, è la Liguria a mostrare le maggiori difficoltà: non offre nemmeno strutture private accreditate. Nel Centro Sud il Molise non dispone nemmeno di un centro pubblico ei Lea non sono garantiti. Poi, ecco le Marche, che hanno una sola struttura pubblica di terzo livello. Il Lazio ha un’unica clinica privata convenzionata anche se garantisce 5 centri pubblici di terzo livello. Le cose sembrano funzionare meglio in Campania. Anche se a fronte di 8 centri del Ssn solo quattro sono di terzo livello. Inoltre non offre nemmeno un privato convenzionato. C’è poi il caso della Puglia che ha sì quattro strutture pubbliche ma nessuna è in grado di garantire il terzo livello e non esistono privati accreditati: qui il completo adeguamento ai Lea non è garantito. Mentre la Calabria (due strutture del servizio sanitario nazionale) solo a Catanzaro può assicurare il trattamento più avanzato. In Calabria, poi, non ci sono centri privati convenzionati. La Sicilia conta diciotto centri tra pubblici e privati ma solo tre specializzati per offrire una assistenza di terzo livello. La Sardegna, infine, dispone di due strutture del servizio sanitario ma non ha cliniche accreditate.